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Leonardo Bruni

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Leonardo BruniArezzo, about 1370 - 1444, Florence

BRUNI (Brunus, Bruno), Leonardo (Lionardo), detto Leonardo Aretino. - Non è sicuramente documentata la data della sua nascita, avvenuta comunque in Arezzo, ove la famiglia del padre Francesco doveva godere di un discreto stato di fortuna e partecipare alla vita pubblica; un'antica tradizione, suffragata dalle indicazioni di alcuni contemporanei e riproposta da H. Baron, pone tale data nel 1370. Non abbiamo alcuna sicura informazione sui primi studi del B., certo compiuti nella città natale. Ancora giovanissimo probabilmente si trasferì (forse in seguito alle sventure politiche del padre, imprigionato nel 1384, dopo la conquista di Arezzo da parte delle milizie francesi del de Coucy) a Firenze, dove studiò retorica con G. Malpaghini e forse iniziò anche gli studi di diritto, preparandosi a una futura carriera di notaio o di cancelliere. Certo il B. godé presto dell'affettuosa amicizia del maggiore rappresentante della prima generazione umanistica fiorentina, il cancelliere della Repubblica Coluccio Salutati, che, allora, non era soltanto l'eloquente difensore di Firenze dalle mire espansionistiche dei Visconti, ma il maestro e la guida di alcuni giovani intellettuali come Niccolò Niccoli, Poggio Bracciolini, Iacopo di Angelo da Scarperia, Roberto de' Rossi, Palla Strozzi, decisi a continuare i nuovi atteggiamenti culturali indicati dal Petrarca, dal Boccaccio e dallo stesso Coluccio.

Il rapporto di amicizia che unì il giovane letterato all'anziano e celebre maestro fu decisivo per i futuri orientamenti del B.: non si chiariscono certi tratti peculiari dell'umanesimo bruniano, se non si ricorda che la sua formazione si compì in un ambiente intellettuale che aveva decisamente ripudiato le antiche tradizioni scolastiche e posto lo studio dei classici al centro di un nuovo modello di educazione umana, sotto la guida di un dotto che considerava dovere essenziale dell'uomo di cultura l'impegno consapevole e meditato al servizio dei propri concittadini e della comune libertà. E invero sempre, nel corso della sua lunga vita, pur tra vicende personali e politiche non sempre coerenti e lineari, egli restò sostanzialmente fedele all'insegnamento del Salutati, accentuando anzi il carattere "civile" della propria vocazione umanistica. Tale carattere appare già delineato, sia pur con limitata consapevolezza critica, nel primo scritto del B. pervenutoci, il Carmen de adventu imperatoris, che il Baron ha datato al 1397-98. Alla notizia che l'imperatore Venceslao si prepara a scendere in Italia per riaffermare la propria sovranità, il giovane umanista risponde con un appello alla tradizione e alla gloria romana del tutto astratto e utopistico. Ma, pur nella sua elegante misura letteraria, il Carmen resta il documento di un umanistico fervore classicheggiante, ancora lontano da quella sicura meditazione politica che il B. più maturo saprà svolgere nello studio della storia e della vita costituzionale e politica di Firenze. Né è improbabile che a spingere il B. verso tali temi e ideali abbia contribuito in quegli anni anche l'amicizia con il Niccoli, il più tenace e deciso sostenitore di una cultura tutta foggiata sugli "exempla" e sui modelli antichi.

Il giovane aretino aveva intanto la possibilità di ampliare e maturare la sua formazione intellettuale attraverso il diretto contatto con le testimonianze della civiltà greca: nel 1397, per opera del Salutati, giungeva a insegnare il greco nello Studio fiorentino M. Crisolora, e subito raccoglieva intorno a sé i rappresentanti della giovane generazione umanistica. Tra i discepoli del dotto bizantino fu anche il B., il quale non esitò ad abbandonare lo studio del diritto per dedicarsi interamente alle "litterae antiquae".

Purtroppo non possediamo altri elementi per ricostruire più esattamente l'attività e gli studi del B. tra gli ultimissimi anni del sec. XIV e il 1405, né vi sono testimonianze che permettano di indicare con certezza i suoi rapporti con le tendenze più radicali del nuovo classicismo umanista o di fissare sicuramente la datazione delle sue opere giovanili, che sono pure documenti importantissimi dei suoi studi, delle sue predilezioni intellettuali, dei suoi atteggiamenti morali e politici. Incerti sono infatti i rapporti cronologici che intercorrono tra i due Dialogi ad Petrum Paulum Istrum, dedicati cioè a P. P. Vergerio, e la Laudatio fiorentinae urbis (già citata nel secondo Dialogus): per il Luiso e il Sabbadini ambedue i Dialogi sarebbero stati composti nel 1401, e la Laudatio nel 1400-1401; il Baron, invece, data il primo Dialogus al 1401 e il secondo al 1405-1406, ponendo nel periodo intermedio la stesura della Laudatio. Sicché il B., per il Baron, avrebbe esordito nel 1401 con il primo Dialogus, atteggiato secondo l'intransigente classicismo del Niccoli e ispirato a una sostanziale indifferenza nei confronti dei risvolti politici della polemica sulla grandezza di Dante, Petrarca e Boccaccio; sarebbe poi passato ad esaltare nella Repubblica fiorentina il fermo baluardo della "pax" e della "libertas"; avrebbe infine sviluppato l'idea della funzione culturale e civile di Firenze, celebrando nei tre massimi poeti del secolo passato gli annunziatori del rinnovamento umanistico. A tali conclusioni è stato obiettato che il carattere letterario dei due Dialogi, legati a un genere retorico (i discorsi pro e contro), molto diffuso nell'ambiente umanistico fiorentino, rende discutibile una netta cesura temporale tra essi. Sta di fatto che alcuni dati filologici, sottolineati dal Baron, indicano un preciso rapporto tra la stesura dell'opera e gli sviluppi della complessa situazione intellettuale e politica della nuova generazione umanistica fiorentina. E resta accertato che la Laudatio e i Dialogi non sono soltanto documenti letterari essenziali per comprendere le idee allora correnti nel maggior centro umanistico italiano, ma anche testimonianza delle prime origini di alcuni temi destinati a dominare a lungo l'intera storia della cultura umanistica.

Non a caso, infatti, il motivo centrale della Laudatio è proprio la ripresa di un argomento che il Salutati aveva spesso adoperato nelle lettere scritte in nome della Repubblica, durante i periodi più duri della guerra milanese; l'esaltazione di Firenze come unica valida difesa delle "libertà" cittadine, anzi esempio perfetto di città-stato naturalmente avversa a ogni disegno egemonico e predestinata, sia alla sua tradizione storica sia dalla stessa situazione geografica, a costituire la salvaguardia dell'equilibrio italiano e di quei principî di autonomia e indipendenza sui quali si fonda la prosperità delle "civili repubbliche". Appunto per questo il B. insiste sul parallelo tra Firenze e l'antica Atene e prende come modello il Panathenaicus di Elio Aristide, di cui si giova per celebrare il primato intellettuale di una città che unisce il culto delle lettere a quello della libertà. Non basta: la Laudatio sottolinea energicamente il carattere cittadino dello Stato fiorentino, che lo rende così simile alla polis greca e, insieme, descrive la città toscana come una città ideale, costruita secondo un progetto razionale, entro una prospettiva geometrica che comprende e definisce la sua stessa funzione storica. Firenze è il "cuore" di un'intera regione che da esso trae i suoi impulsi vitali e il proprio ordine civile. Al punto focale di questa prospettiva, che fa gravitare su Firenze tutto un vasto e "naturale" dominio, sta il palazzo dei Signori, presidio di una convivenza umana retta dalla norma divina della legge; in esso le magistrature continuano la virtù originaria della Roma repubblicana, di cui Firenze può giustamente considerarsi l'erede. Tutta la storia di Firenze è esaltata dal B. sotto il segno della "libertas reipublicae", di un antico e perenne odio contro ogni dispotismo. Delineando un tema destinato a grande fortuna non solo nella tradizione umanistica, ma in un costante filone della riflessione politica europea tra Quattrocento e Settecento, egli contrappone insomma all'idealizzazione della monarchia cesariana, svolta da taluni umanisti settentrionali, l'apologia della città prudente e benefica, del piccolo Stato indipendente. Sicché la vittoria fiorentina nella dura prova delle ultime guerre è vista dal B. come il frutto del libero sistema costituzionale che Firenze ha saputo crearsi, con logica e armoniosa coerenza, per sviluppare e rafforzare la sua naturale vocazione alla libertà. È inutile insistere sul carattere apologetico della Laudatio o sulla stretta connessione operata dal B. tra gli ideali filologici, letterari e storici del nascente umanesimo e la difesa di una tradizione repubblicana individuata nella Roma di Bruto e di Catone e nella sua "discendenza" fiorentina. Più giova osservare come una simile prospettiva sia assai diversa da quella dominante nel primo dei Dialogi ad Petrum Paulum Istrum, considerato da taluni studiosi come la più drastica espressione della rivolta umanistica contro il recente passato e il manifesto di un classicismo intransigente e consequenziale. In effetti, già nel Proemium il B. dichiara di volere presentare un quadro veritiero delle dispute che allora appassionavano i giovani amici e discepoli di Coluccio e di proporsi di "conservare il più fedelmente possibile il carattere di ogniuno dei protagonisti", e in particolare, di quel N. Niccoli al quale viene affidato il compito di polemizzare a fondo contro ogni forma, aspetto e tradizione della cultura preumanistica. Non a caso, infatti, il Niccoli apre il suo discorso con la lode incondizionata dei filosofi, dei poeti, dei grammatici e dei retori classici, e con la conseguente contrapposizione tra l'età antica, madre di tutte le scienze veramente umane e nobili, e la barbarie della cultura contemporanea. Nelle scuole domina un gergo orrido e barbarico; vi si leggono solo quei libri, attribuiti ad Aristotele, che sono invece il frutto di una generale corruzione e corruttela storica e linguistica; e, ignorando il nome degli altri sapienti antichi, si suole chiamare "filosofo" il solo Aristotele la cui autorità è accettata come quella di un oracolo. Eppure (è qui annunziato un tema che diverrà ben presto un Leitmotiv delle polemiche umanistiche) questi cosiddetti aristotelici sono talmente lontani dalla lingua e dalle dottrine originarie del loro preteso maestro da non accorgersi neppure che le opere da essi celebrate sono sostanzialmente spurie. Questa condanna così decisa e radicale colpisce in blocco tutta la tradizione filosofica scolastica, alla quale si oppone la nuova filosofia nutrita dalle "bonae litterae" e sostenuta dall'"eloquentia" e dalla raffinata "elegantia" classica. Tale idea, già avanzata in alcune pagine del Petrarca e del Salutati, diverrà ben presto il nucleo più persistente e immutabile di una costante polemica umanistica in cui, al di là degli argomenti più contestabili, è facile intravedere il nuovo atteggiamento del filologo diffidente nei confronti di ogni tradizione non accertata, che si propone come uno dei suoi scopi essenziali la "restituzione" in un corretto ed elegante latino dei grandi "documenti" della filosofia classica. Alla totale condanna della cultura dei secoli "bui", respinta in quell'orrida selva della "barbarie" dove tutto è, per usare un tipico termine bruniano, "inhumanitas", si oppone però già nel primo Dialogus l'argomentazione assai più moderata e ponderata del Salutati. Nella sua risposta al Niccoli egli si affretta a distinguere dalla generale condanna dei "moderni" almeno quei tre "sommi" che, nonostante la miseria dei loro tempi, possono essere paragonati degnamente agli antichi, primo fra tutti Dante. Ed è significativo che non taccia le ragioni di convenienza politica, oltre che di giusta valutazione critica, le quali dovrebbero indurre a un più prudente giudizio nei confronti di concittadini così illustri. Ma il Niccoli ribadisce che Dante, Petrarca e Boccaccio non hanno mai usato una "latinitas" pura e incorrotta, che mai nei loro scritti letterari o poetici è possibile gustare un'eloquenza o un'"elegantia" simile a quella di un Cicerone o di un Virgilio. Critica anzi duramente il cattivo latino delle epistole di Dante, definisce "ridiculus mus", del tutto inferiore alle vantate promesse, l'Africa petrarchesca e formula anche sul conto del Boccaccio conclusioni altrettanto negative. Perciò il Dialogus pare chiudersi con una condanna della cultura preumanista altrettanto radicale quanto generale. Simili conclusioni sembrano però contraddette nel secondo Dialogus, ove il Niccoli è chiamato a pronunziare una palinodia che, se accetta la difesa delle "tre corone" e addirittura la loro celebraziones non recede però minimamente dalla polemica contro i "moderni" e dalla condanna della cultura scolastica. Il che pone, senza dubbio, limiti molto precisi all'apparente contraddizione tra i due Dialogi e attenua anche quell'impressione di distacco e di contrasto così energicamente sottolineata dal Baron. L'invettiva contro le "tre corone", punto conclusivo del primo Dialogus, è infatti presentata come un abile espediente retorico usato per indurre Coluccio a ripetere le sue note lodi dei poeti fiorentini; e, in genere, si possono puntualmente registrare nella struttura del discorso i procedimenti più tipici dell'"oratio suasoria" in risposta ad una precedente "dissuasoria". Il Niccoli, infatti, mentre rinnova la sua professione di fede di ciassicista, amante delle "litterae graecae et latinae", confessa appunto di nutrire la più grande ammirazione per quei tre gloriosi e, in special modo, per il Petrarca; pur non smentendo le accuse rivolte nel discorso precedente contro una situazione culturale delineata con risoluta intenzione polemica, egli può dichiarare di essere perfettamente disposto a includere anche i "tre vati" fiorentini nel novero dei classici e, addirittura, di considerarli vicini a Virgilio e a Cicerone.

La discordanza tra il primo e il secondo Dialogus, almeno per quanto concerne le conclusioni più appariscenti, ha naturalmente costituito il punto cruciale dell'interpretazione critica di questi testi. Dopo la pubblicazione del secondo, avvenuta nel 1889, l'opinione degli storici è stata soprattutto divisa tra coloro che ne scartavano le ritrattazioni, considerate meri espedienti retorici o ipocrite concessioni ai gusti del pubblico fiorentino, e chi invece ha ritenuto le invettive del primo Dialogus un pretesto per dare ancora maggior risalto alla celebrazione delle "tre corone". Da simili conclusioni si è però nettamente allontanato V. Rossi per cui i due Dialogi da un lato rifletterebbero l'insofferenza umanistica nei confronti della cultura e della filosofia "scolastica" di Dante e dell'impianto ancora profondamente medioevale del suo pensiero politico ma, d'altro canto, esprimerebbero la consapevolezza dell'eccezionale valore di Dante come poeta e, insieme, come precursore dell'"atteggiamento rinascimentale verso l'uomo e la vita", nonché il riconoscimento della funzione determinante esercitata dal Petrarca ai fini di un radicale rinnovamento della cultura del suo tempo.

Comunque, per una valutazione più compiuta dell'attività giovanile del B. occorre tenere conto anche di altre opere che egli venne elaborando in questi anni. Risale infatti al 1400-1401 l'inizio della versione, dedicata al Salutati, dell'omelia De utilitate studii di Basilio, terminata sicuramente prima del 3 maggio 1403; probabilmente è dello stesso periodo anche la traduzione del De tyranno di Senofonte, dedicata al Niccoli; mentre è agevole datare tra l'ottobre del 1404 e il marzo del 1405 la traduzione del Fedone platonico, offerta a papa Innocenzo VII. Inoltre sarebbe stata composta prima del marzo 1405, data dalla partenza del B. per Roma, anche la versione della Vita M. Antonii di Plutarco, dedicata pure essa al Salutati. Questa attività di traduttore risponde pienamente ai pesanti rilievi avanzati nei Dialogi a proposito delle versioni medioevali dei classici e ad una volontà programmatica di mostrare come sia possibile proporre ai "latini" dei testi greci esattamente interpretati, con il massimo rispetto per la loro eleganza e purezza formale. Al di là delle lunghe discussioni sull'effettivo valore delle versioni bruniane e nella loro reale fedeltà ai testi bisogna rilevare che esse non solo godettero di eccezionale fortuna come modello di "resa" umanistica di alcuni dei maggiori documenti della cultura greca, ma contribuirono in modo determinante all'affermazione dei tipici ideali umanistici di "eloquentia" ed "elegantia", nonché a favorire l'effettivo progresso di metodi e interpretazioni di carattere storico-filologico.

L'intensa partecipazione del B. alla vita intellettuale fiorentina degli inizi del secolo e la sua stessa familiarità con il Salutati e altri rappresentanti della oligarchia dominante non valsero a fargli ottenere una posizione di rilievo e ben remunerata negli uffici cittadini. Sappiamo che per qualche tempo si dedicò nuovamente agli studi giuridici e forse iniziò anche la professione legale; ma non si sentiva affatto attratto da simili attività, né desiderava chiudere la sua carriera con la carica di cancelliere in qualche oscura e lontana cittadina. Per questo il B. cercò altrove un'opportuna sistemazione, e si volse alla Curia pontificia dove, già dal 1403, si trovava, in qualità di "scrittore" e "abbreviatore", l'amico Poggio Bracciolini. Nel marzo del 1405, invitato a presentarsi in Curia, egli si recò a Roma. Al papa Innocenzo VII il B. sembrò troppo giovane per potere aspirare alla carica di segretario apostolico; tuttavia fu messo alla prova e invitato a scrivere, in gara con Paolo di Angelo, un'epistola di risposta al duca di Aquitania. La sua stesura parve la migliore e gli valse l'inizio di una carriera prestigiosa che lo tenne impegnato per un intero decennio, in un periodo di gravi conflitti religiosi ed ecclesiastici.

Alla sua entrata nella cancelleria apostolica il B. infatti non solo dovette affrontare le notevoli responsabilità della nuova carica, ma un'improvvisa rivolta dei Romani lo pose, insieme con gli altri curiali, in una condizione di reale pericolo, finché il pontefice non decise di rifugiarsi nella più sicura Viterbo. Qui il B. giunse l'8 ag. 1405 e rimase sino al marzo dell'anno seguente. Questi mesi di soggiorno viterbese furono particolarmente ingrati per il giovane segretario papale che, tra l'altro, cadde ammalato e attraversò un breve periodo di profonda nostalgia per l'ambiente fiorentino.

Nelle sue epistole agli amici, e in particolare al Salutati, il B. si dichiarava spesso scontento e deluso. In una lettera al Salutati del 13 settembre si lamentava appunto della propria scarsa fortuna e si rimproverava di aver abbandonato Firenze; la risposta di Coluccio, di tono brusco e un po' ironico, dette luogo a scambi epistolari non sempre sereni, almeno per quanto concerneva i rapporti personali tra i due. Ciò non incrinò, tuttavia, la loro solidarietà intellettuale che anzi si rafforzò, tra la fine del 1405 e gli inizi del 1406, nel corso della disputa insorta tra Poggio e il Salutati a proposito di un elogio del Petrarca composto in gioventù dal cancelliere. I rapporti tra il B. e il suo vecchio maestro rimasero insomma ben stretti, così come saldo rimase il suo affetto nostalgico per Firenze. Chiamato a tenere l'orazione funebre per un giovane patrizio fiorentino, Ottone, nipote del cardinale Acciaiuoli, morto a Viterbo presso la Curia, egli colse l'occasione per citare, nella Laudatio in funere Othonis adulescentuli, le parole di Temistocle secondo le quali, nonostante il proprio talento, egli non avrebbe avuto alcuna speranza di conseguire una fama durevole, senza le particolari opportunità offertegli dalla "splendida patria", e, quindi, per tessere ancora una volta le lodi di Firenze.

Quando, pochi mesi dopo il ritorno della Curia a Roma (marzo 1406), morì il vecchio Salutati e si aprì la successione al cancellierato fiorentino, egli pose subito, senza successo, la sua candidatura. Nei mesi seguenti, tuttavia, il suo atteggiamento doveva mutare, in parte sotto l'impressione del rifiuto ricevuto, ma, più probabilmente, per la considerazione delle notevoli possibilità di ordine politico ed economico che sembravano aprirglisi nella sua carriera curiale. Invero, quando, nel dicembre dello stesso anno, si rese nuovamente libera la carica di cancelliere, il B. rispose negativamente all'invito dei suoi vecchi amici perché approfittasse di quella inaspettata occasione. A deciderlo a questa scelta contribuì indubbiamente l'elezione al soglio pontificio di Gregorio XII (30 nov. 1406) che, già prima di assumere la tiara, aveva giurato di proporsi come unico scopo la composizione dello scisma e di essere pertanto disposto ad abdicare purché il papa avignonese avesse compiuto lo stesso gesto. La stesura del documento inviato all'imperatore, ai re, ai principi e allo stesso pontefice di Avignone per esporre questo programma fu affidata a vari segretari; e tra le diverse bozze proposte Gregorio scelse quella del B., che era sembrata a lui e ai cardinali superiore a tutte le altre. Il B. fu molto fiero di questo successo che sembrava schiudergli la speranza di poter adoperare la sua abilità letteraria al servizio della pacificazione cristiana e, comunque, gli assicurava una particolare considerazione nella Curia romana. Ed è significativo che nella stessa lettera al Niccoli, nella quale narra la sua "vittoria", e, insieme, declina l'invito a candidarsi Per il cancellierato fiorentino, si notino espressioni e parole assai più distaccate nei confronti di Firenze e un accenno molto esplicito alla sua "patria aretina". Del resto, già nella primavera e nell'estate il B. era stato impegnato al servizio della Curia e del pontefice in incarichi di particolare fiducia, prima nel Piceno, poi a Rimini e a Cesena per cercare soccorsi e aiuti alla causa papale; e papa Innocenzo aveva mostrato di apprezzare i risultati delle sue missioni, offrendogli un episcopato - che il B. aveva declinato - e trattandolo con riguardi e onori particolari.

D'altra parte gli impegni curiali non dovevano impedirgli, nonostante i continui viaggi e spostamenti, di attendere alle predilette fatiche letterarie. Risale probabilmente al 1406 la versione dell'orazione di Demostene Pro Diopithe; era già sicuramente terminata nell'aprile del 1407 la traduzione, sempre da Demostene, della Pro Ctesiphonte, mentre il Baron colloca verso la fine dello stesso anno e gli inizi del 1408 il possibile termine della versione della Vita Catonis di Plutarco, e tra il dicembre del 1407 e il 7 genn. 1408 la stesura conclusiva dell'Oratio Heliogabali ad meretrices. Infine dovrebbe ancora esser datata al 1407 0 1408 la commedia latina Gracchus et Poliscena (o Calphurnia et Gurgulius) che ebbe, più tardi, una discreta circolazione anche a stampa.

Queste opere furono compiute durante un periodo particolarmente impegnativo della vita curiale del B., che doveva presto assistere al crollo delle speranze riposte nella politica di papa Gregorio. Nel settembre 1407 si trovava a Siena al seguito del pontefice che, proprio in quel tempo, gli conferiva, fermo il suo ufficio curiale, un canonicato presso la cattedrale fiorentina e la prepositura fiesolana lasciata libera dal senese A. Casini, nominato vescovo di Pesaro; cariche alle quali il B. avrebbe presto rinunciato per trasmetterle a Salutato Salutati, figlio di Coluccio. Poi, sempre con il papa, nel gennaio del 1408, si recava a Lucca dove sarebbe rimasto sino a luglio inoltrato; e di qui, in una lettera del giugno-luglio a Petrillo Napoletano, parlava, con viva preoccupazione e timore, della grave condizione della Chiesa e della Curia, resa drammatica dalla secessione cardinalizia. Nondimeno, nel luglio, seguiva ancora Gregorio a Siena; però si rivolgeva agli amici fiorentini, e in particolare al Bracciolini, perché facessero in modo da farlo richiamare in patria. Poi, in una lettera del 17 ottobre al Niccoli, esprimeva tutto il suo sgomento di fronte alla "procellosa tempestas" in cui si trovava implicato e la speranza di poter presto ricoverarsi a Firenze e vicino agli amici; nel dicembre, dopo esser passato per Rimini, si trovava ad Arezzo donde scriveva a Niccolò de' Medici, sollecitando una pronta risposta da parte di Poggio. Alla fine di gennaio era di nuovo a Rimini, dove si era rifugiato papa Gregorio; e di qui il 10 e il 13 febbraio, in due lettere al Niccoli, tornava a insistere per una rapida soluzione del suo "negotium", mostrandosi preoccupato per l'indecisione o scarso zelo del Bracciolini. Finalmente, prima della fine di marzo, un decreto della Signoria fiorentina lo richiamava con urgenza a Firenze, liberandolo dalla difficile e pericolosa situazione al seguito di un papa ormai senza più autorità e prestigio; e in Firenze lo raggiungeva l'invito del collegio cardinalizio a recarsi a Pisa, sede del concilio, dove giunse ai primi di aprile, forse il 3. Eletto dal concilio il pontefice "pisano" Alessandro V, il B. passò al suo servizio e, con lui, rimase a Pisa sino all'autunno del 1409, per recarsi poi a Pistoia.

Di qui, agli inizi di novembre, riprendeva la sua corrispondenza col Niccoli, per comunicargli che Bartolomeo Cremonese aveva scoperto "Ciceronis epistolas ex vetustissima littera" tra le quali erano "septem... ad Atticum libros" che si aggiungevano a quelli già conosciuti; annunziava anche l'invio della propria versione del Gorgia che, come sostiene il Baron, doveva essere stata condotta insieme con quella della Vita Sertorii (ottobre 1408-gennaio 1409). Sicché gli uffici di Curia non gli impedivano di continuare la sua attività letteraria, dedicata probabilmente anche alla versione della Vita Pyrrhi (terminata sicuramente prima del marzo del '12) e forse, anche a quella assai più impegnativa delle Epistolae platoniche, databile tra il 29 dic. 1410 e il 4 apr. 1411.

Tra la fine di gennaio e i primi di marzo del 1410 troviamo il B. a Bologna, sempre al seguito della Curia "pisana": di lì tornava a scrivere al Niccoli alcune lettere, tra le quali è particolarmente interessante quella del febbraio-marzo relativa all'arrivo a Bologna di Guarino Veronese. La morte di Alessandro V e l'elezione a pontefice dell'ubbidienza "pisana" del cardinale Cossa, con il nome di Giovanni XXIII, non mutarono la posizione del B., che, tuttavia, tra le confuse vicende di uno scisma sempre più grave e lacerante, guardava con crescente nostalgia al sereno porto fiorentino. Sicché, quando lo stesso anno si rese ancora vacante il cancellierato, il B. pose di nuovo la sua candidatura, che questa volta fu accettata nel mese di novembre. Ma, tornato nella patria ideale, sia che incontrasse eccessive difficoltà nell'esercizio della nuova professione sia che si urtasse con contrasti politici troppo gravi, sia ancora che il trattamento economico non fosse soddisfacente, tenne per poco tempo la carica. È certo che verso la metà del 1411 era di nuovo a Roma, al servizio di Giovanni XXIII; sicuramente vi era ancora alla fine dell'anno, quando scriveva al Niccoli due epistole a proposito di una questione ecclesiastica fiorentina.

All'inizio del 1412 il B. fu per breve tempo a Firenze, quindi ad Arezzo, dove probabilmente nel febbraio celebrava il proprio matrimonio con una Tommasa, di cui si sa soltanto che apparteneva ad un'elevata famiglia fiorentina, Il testamento, stilato dal B. nel marzo del 1439, testimonia che ella aveva portato al marito una dote di 1.100 fiorini, eccezionale in quei tempi. In una lettera a Poggio del 18 marzo, il B. ricorda la fastosità della cerimonia e le ingenti spese sostenute. È opportuno osservare che il B., il quale aveva già rinunziato ai suoi benefici, si chiuse con questo atto la possibilità di una cospicua carriera ecclesiastica e scelse definitivamente quello stato di laico e di "paterfamilias" che spesso lodò nei suoi scritti.

Poco dopo il B. doveva far ritorno a Roma e riprendere il servizio di Curia. Ma era nuovamente ad Arezzo nell'estate dello stesso anno, donde scriveva al Niccoli per sottoporgli alcuni dubbi sulla resa latina di certi vocaboli greci; e vi si trovava ancora il 1º settembre, data di una nuova epistola al Niccoli che si riferisce alla sua traduzione del Contra Ctesiphontem di Eschine condotta, forse, insieme con un'altra importante versione, quella della Vita Demosthenis di Plutarco. Il 1412 si chiuse per il B. a Roma dove, sul finire dell'anno, gli nacque il figlio Donato.

Il 1413 fu un anno di continui viaggi e peregrinazioni. Ladislao di Napoli, che già nel 1408 si era impadronito di tutta l'Umbria e nel 1409 aveva ottenuto l'amministrazione dello Stato pontificio, l'8 giugno occupò Roma. Il papa abbandonò la città e si rifugiò a Firenze, ove il B. era presente nell'ottobre, quando controfirmava un diploma papale per Niccolò III d'Este. Poi, seguendo sempre la corte papale, fu successivamente a Piacenza, Lodi, Cremona, Mantova, prima di tornare a Bologna ove la Curia sostò per tutta l'estate; durante tale soggiorno, il B. ricevé dall'imperatore Sigismondo la richiesta di stendere una breve esposizone della costituzione fiorentina. Nella risposta, in forma epistolare, l'umanista tornava ad affermare che la libertà era il principio essenziale della organizzazione costituzionale della Repubblica e che la sostanza di tale libertà consisteva nella "paritas et equalitas" dei cittadini, garantita dal rigoroso controllo esercitato dalle leggi nei confronti dei detentori di cariche pubbliche e dei cittadini più potenti.

Non v'è dubbio che il rinnovarsi di una condizione politica che aveva molti elementi in comune con l'età eroica della guerra milanese contribuisse a rinnovare nella mente dell'umanista quella antica e mai spenta vocazione civile, solo affievolita durante il lungo servizio nella Curia papale. Tuttavia il fatto determinante, in questo momento della sua biografia, fu un altro: il viaggio, attraverso Verona, il Trentino e la Svizzera, sino a Costanza, dove si sarebbe celebrato il concilio destinato a porre fine allo scisma. Il 31 dicembre del 1414 il B. era già a Costanza, donde scriveva al Niccoli, parlandogli del lungo viaggio, delle terre viste, delle antichità ammirate, dei caratteri e degli usi dei vari ceti sociali della città tedesca. Ma il suo soggiorno oltralpe non fu certo felice. La deposizione di Giovanni XXIII da parte del concilio e la dissoluzione della sua Curia costrinsero il B. ad abbandonare rapidamente Costanza, con una fuga che, secondo la descrizione di Vespasiano da Bisticci, non fu priva di pericoli e di gravi disagi. Questa disavventura dové pesare non poco sulla definitiva decisione dell'umanista di abbandonare per sempre gli uffici curiali e tornare a Firenze per dedicarsi unicamente agli studi e per assolvere alla promessa di diventare lo storico "civile" della Repubblica, formulata negli anni della giovinezza.

Non si conosce con esattezza la data del ritorno del B. a Firenze (il Mehus propone il marzo del 1415), ma non v'è dubbio che appena tornato, si pose a lavorare intorno al suo capolavoro, quella Historia Florentini populi, la cui stesura doveva accompagnarlo per tutta la vita. È opinione comunemente accettata che il Proemium e il libro primo risalgono senz'altro allo stesso anno 1415, poco dopo che la morte di Ladislao aveva salvato Firenze dal pericolo di un mortale accerchiamento. E appunto nel Proemium egli illustrava magistralmente la prospettiva storica che era all'origine della sua opera ed alla quale avrebbe poi sempre ispirato la narrazione delle "gesta Florentinorum". Secondo tale prospettiva le successive vittorie di Firenze su Gian Galeazzo, Pisa e Ladislao avevano definitivamente consacrato la trasformazione della città da una Repubblica cittadina a uno Stato regionale la cui azione politica poteva ora estendersi attraverso tutta l'Italia fino a stringere rapporti con i grandi e piccoli paesi al di là della barriera alpina. Per il

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