Ludovico Ariosto
Reggio Emilia, 1474 - 1533, Ferrara
di Natalino Sapegno
ARIOSTO, Ludovico. - Nacque a Reggio Emilia l'8 sett. 1474 da Niccolò e da Daria Malaguzzi Valeri. Il ramo degli Ariosti, da cui discendeva il padre, s'era trasferito da Bologna a Ferrara già prima del 1347, allorché Obizzo III d'Este aveva sposato la "bella Lippa" di quel casato, la quale conviveva con lui da molti anni e gli aveva dato ben tredici figli. Sicché ferrarese poteva ormai considerarsi la famiglia, e tra le cospicue della città per onori e cariche (in un atto del duca Borso è ricordata come "omamentum et splendor" della corte estense); e "nobile ferrarese" amò definirsi poi sempre il poeta.
Dell'agitata carriera paterna dovettero risentire l'infanzia e l'adolescenza dell'A., che certo lo seguì nei frequenti e repentini trasferimenti, da Reggio a Rovigo, a Ferrara, a Modena, e poi nuovamente a Ferrara. Fra i quindici e i vent'anni frequentò nell'università i corsi di legge, di malavoglia e con scarso frutto. Solo nel '94, "dopo molto contrasto" (Sat., VI, 161-162), ottenne di seguire liberamente la sua vocazione dedicandosi tutto agli studi umanistici, sotto la guida di Gregori o da Spoleto. Furono allora gli anni della giovinezza gaia e dei facili amori, ma anche delle assidue letture e delle appassionate conversazioni, dei primi esercizi poetici e delle prime geniali amicizie con letterati e poeti, col cugino Pandolfo, con Alberto Pio da. Carpi, poi con Ercole Strozzi, con Pietro Bembo. Allora anche si stringe il forte nodo, che legherà poi sempre l'A., in una fitta trama di affetti e di consuetudini, alla vita della sua città, e l'altro, più complicato e contrastato, che lo terrà avvinto agli Estensi, i signori che avevano innalzato e protetto lui e la sua famiglia e le cui vicende erano d'altronde così strettamente intrecciate alle gloriose vicissitudini storiche e culturali della sua terra. Non per nulla, a costituire lo sfondo su cui germinerà e si svolgerà l'ampio respiro della poesia ariostesca, sta la sapiente politica culturale perseguita con coerenza dagli Estensi, fino a far di Ferrara uno dei centri più fervidi ed esemplari della civiltà rinascimentale, negli anni stessi che vedono la città duramente impegnata a difendere la sua difficile indipendenza minacciata da Venezia e dai papi in un'altema vicenda di guerre, non di rado rovinose, e di sottili contrasti diplomatici.
La scuola umanistica fondata dal veronese Guarino e illustrata da una lunga serie di discepoli sempre pronti ad avvicendare e armonizzare senza disagio gli ozi poetici e i negozi civili, fino ai due Strozzi, al Postumo, al Pigna; il culto della poesia volgare, praticata con disinvoltura di esperto mestierante da un Tebaldeo ovvero originalmente rinnovata da un Boiardo; la grandiosa impresa urbanistica iniziata da Ercole I e attuata da quell'architetto geniale che fu Biagio Rossetti; il gusto delle splendide e raffinate decorazioni, che richiama da ogni parte artisti famosi, dal Pisanello a Ruggero van der Weyden, da Iacopo Bellini al Mantegna e suscita la fioritura di un'insigne scuola pittorica locale, con Cosmé Tura, Francesco del Cossa, Ercole de Roberti, fino al Costa, al Grandi, al Dossi, al Garofalo; l'amore delle feste, degli intrattenimenti musicali, con la presenza e la collaborazione dei grandi polifonisti fiamminghi (Josquin du Pré, Jakob Obrecht); il fasto degli spettacoli, che segnano, a Ferrara appunto, le basi di un rinnovamento del teatro destinato a propagarsi rapidamente in Italia e poi in tutta l'Europa: sono le premesse e la cornice necessaria in cui si colloca naturalmente tanta parte dell'attività letteraria dell'A.; mentre le capacità espansive e il fascino di quella ricca e multiforme atmosfera di cultura spiegano i contatti e le soste più o meno lunghe presso la corte ferrarese di quasi tutti i maggiori letterati tra la fine del XV e gli inizi del XVI secolo, dal Marullo,. al Collenuccio, al Manuzio, al Bembo, e poi al Trissino, al Bandello, al Bentivoglio, a Bernardo Tasso, tutta quella fitta e vastissima trama di relazioni e di amicizie letterarie e mondane, che il casalingo Ludovico potrà poi registrare nelle ottave iniziali del XLVI canto del suo Orlando.Al servizio della corte egli era entrato assai presto, vivente ancora il padre (fin dal '94 era in grado di far prelevare a suo nome dai magazzini estensi stoffe e cibarie). Morto Niccolò nel 1500, la necessità di una sistemazione pratica divenne urgente in vista degli obblighi, che ricadevano su di lui come primogenito, di capo e amministratore di una numerosa famiglia. Della sollecitudine e dell'abilità con cui l'A. seppe adempiere ai suoi-doveri di capofamiglia, rivelando doti di accorto e paziente massaio, provvedendo ad assistere amorevolmente la madre, ad accasare le sorelle senza intaccare l'eredità comune, e a collocare con onore i fratelli (Galasso e Alessandro, rispettivamente alle dipendenze del cardinale Cybo e del cardinale Ippolito d'Este; Carlo, in un'attività mercantile, nel Regno di Napoli), resta testimonianza nei suoi versi (Sat., I, 199-2 16; VI, 199-210) non senza una ben legittima compiacenza, ma anche con il senso dei sacrifizi e delle rinunzie che l'adempimento di quegli obblighi dovette comportare, troncando precocemente il corso della sua educazione umanistica (gli rimase poi fino all'ultimo la nostalgia dei mondo greco appena intravveduto) e distogliendolo dagli ozi letterari verso incombenze e impegni assai meno congeniali alla sua indole. Dal 1501 al 1503 accettò l'ufficio di capitano della rocca di Canossa, da cui scendeva di tempo in tempo a ricrearsi nelle ville del cugino Sigismondo Malaguzzi nei pressi di Reggio; poi, tornato a Ferrara, si decise a prender gli ordini minori e ad entrare come "familiare" al servizio del cardinale Ippolito, che presto lo compensava ottenendogli taluni benefici ecclesiastici, di scarso reddito per altro e complicato da beghe e liti interminabili.
L'A. aveva, nella sua prima giovinezza, vagheggiato probabilmente il sogno di assicurarsi in corte una sistemazione dignitosa e non soverchiamente impegnativa, sul tipo di quelle che ormai tradizionalmente si riserbavano a letterati e uma~ nisti: di siffatte intenzioni rimane traccia in taluni esercizi di letteratura encomiastica, dall'epicedio per la morte di Eleonora d'Aragona, moglie di Ercole I, del 1493, all'epitalamio del 1502 per le nozze del duca Alfonso con Lucrezia Borgia, fino al capitolo rimasto interrotto nel 1504 sulle gesta di Obizzo d'Este, che è il suo primo tentativo nel genere epico.
Anche in seguito gli Estensi non disdegnarono di adoperare ai loro fini le attitudini letterarie dell'A., specie per l'allestimento di feste e la composizione di testi teatrali. Tuttavia il servizio presso il cardinale, uomo di azione energico e scaltro, ma scarsamente sensibile alla poesia e alla cultura, era ben lungi dal ridursi all'esercizio di una perizia letteraria, ovvero a funzioni di semplice rappresentanza: esso comportava invece difficili missioni diplomatiche, come quelle che portarono l'A. a più riprese a Roma, fra il 1509 e il '16, per patrocinare presso Giulio II e poi presso Leone X la causa dei signori ferraresi, dissipare i sospetti suscitati nella Curia dalla loro irrequieta politica filofrancese, placare l'ira del primo pontefice ovvero favorire le buone disposizioni del secondo a vantaggio dell'ambizioso cardinale, e anche incarichi pericolosi di esploratore e di corriere nelle tempestose vicende della guerra che fra il 1509 e il '13 devastò le terre del ducato, e di cui alcuni episodi salienti (l'assalto alla Polesella, la battaglia e il sacco di Ravenna) rimasero impressi nella memoria del poeta che dovette assistervi di persona.
Ma più ancora dei disagi legati ai viaggi sempre più frequenti e mal sopportabili da un uomo ormai quarantenne e malandato di salute, più dei pericoli in cui si trovava talora coinvolto nello svolgimento delle sue mansioni di fiducia, dovevano pesare come ragioni determinanti del malcontento crescente del poeta quelle altre che egli stesso espone nella prima Satira, diretta al fratello Alessandro: lo scarso apprezzamento da parte del cardinale delle sue doti più specifiche di scrittore e di umanista, sempre troppo scarsamente utilizzate e non mai adeguatamente retribuite; il fastidio di dover accettare giorno per giorno attribuzioni che gli parevan servili e umilianti o comunque per nulla conformi alla sua indole e ai suoi gusti. Di giorno in giorno cresceva in lui il desiderio di un'esistenza più raccolta e meno dispersiva; con gli anni, parallelamente all'accresciuta coscienza dei propri meriti, si faceva più impellente l'esigenza di una forma di vita che non lo costringesse troppo spesso ad allontanarsi "dal nido natio", che non lo distraesse dolorosamente dagli affetti più cari, la sua poesia e la sua donna. Il grande poema, in cui egli aveva ormai impegnato tutto sé stesso, intrapreso già prima del 1507, compiuto in una stesura provvisoria nell'estate del 1509, pubblicato nel '16 dopo un lungo lavoro di correzione e di lima attuato sfruttando al massimo le rare pause di quiete che i suoi obblighi e le quotidiane preoccupazioni gli consentivano, richiedeva sempre più le sue cure assidue, per essere ulteriormente ripulito nella forma, arricchito e ampliato nell'invenzione e nell'intensità dei movimenti fantastici e sentimentali, onde renderlo sempre più conforme alla vagheggiata perfezione.
Intanto, fin dalla primavera del '13, Si era stabilito quel legame affettivo, che nella vita dell'A. tiene un posto fondamentale e quasi esclusivo, con Alessandra Benucci. Poco sappiamo (e poco peso dovettero avere anche per lui) intorno alle precedenti relazioni con una Maria, non meglio identificata, che gli fu compagna durante il capitanato a Canossa, e da cui gli nacque quel Giovambattista che ricorderà come figlio naturale nel suo testamento; oppure con una Orsola Sassomarino, da lui frequentata fra il 150 8 e il '13, la madre di quel Virginio, che egli predilesse per il suo ingegno e la conformità dei costumi e della mente e, dopo averlo legittimato, educò con amorosa sollecitudine nel culto della poesia e della sapienza umanistica: umili donne, presto rientrate nell'ombra, e che non dovettero lasciare una traccia profonda nel suo animo. Altra cosa fu l'unione con Alessmdra, un vincolo maturato negli anni adulti, nella stagione della pienezza e dell'equilibrio sentimentale, e mantenuto vivo con reciproca inalterata fedeltà per un ventennio, anche se soltanto tardi, dopo il '28 (quando la Benucci era vedova già da tredici anni), l'A. s'indurrà a consacrarlo con un matrimonio, che anche allora sarà celebrato in segreto, di comune accordo, sia per conservare al poeta quei benefici ecclesiastici di cui godeva e che avrebbe perduto rinunziando apertamente al celibato, sia per mantenere a lei la tutela e l'usufrutto dei beni delle figlie nate dalle sue prime nozze con Tito Strozzi.
Il pretesto per sottrarsi alla "mala servitù" del cardinale venne nell'agosto 1517. Ippolito, creato vescovo di Buda, sollecitò tutti i suoi familiari a seguirlo nella lontana sede: molti fra essi tentennarono prima di accondiscendere all'ordine; l'A. rifiutò risolutamente, e fu licenziato. Pochi mesi dopo (già prima dell'aprile del '18) Ludovico entrava, come cameriere o familiare, tra gli stipendiati del duca Alfonso: "servitù" anche questa, ma di minor disagio e probabilinente più dignitosa. Cresceva in corte il prestigio del poeta. non migliorava invece la situazione economica, in modo tale da assicurargli, come avrebbe voluto, un largo margine d'indipendenza. Nel '19, l'eredità del cugino Rinaldo Ariosto, morto senza testamento e senza eredi diretti, non valse a sollevarlo; ché anzi lo costrinse a intraprendere una lunga e difficile lite per il possesso della bella tenuta delle Arioste a Bagnola, possesso a lui conteso, nientemeno, dalla camera ducale col pretesto del mancato pagamento di certi canoni. Quando poi i dissensi tra Ferrara e lo Stato pontificio degenerarono in guerra aperta, determinando la tesoreria ducale a ridurre dapprima e quindi a sopprimere gli stipendi dei cortigiani, la situazione finanziaria di Ludovico divenne addirittura critica. Si acconciò dunque, se pur di malavoglia, ad accettare nel '22 l'incarico del governatorato della Garfagnana. Fatto testamento e messi in ordine, per ogni evenienza, tutti i suoi affari, il 20 febbraio partiva per Castelnuovo.
In quella provincia montuosa e selvatica, da poco ritornata in possesso degli Estensi e tuttora infestata dai briganti e dalla violenza delle fazioni rivali, rimase, salvo qualche scappata a Ferrara per motivi d'ufficio o per incontrarsi con la Benucci, fino al marzo del '25; adoperandosi con saggezza e abilità (sebbene male assecondato, e talora impedito, dal duca) per ricondurre nel paese l'ordine e il rispetto della legge, e fronteggiando con pronti e opportuni provvedimenti le situazioni più incresciose, il pericolo della peste, la minaccia sempre incombente della carestia.
Di ritorno a Ferrara, col denaro messo insieme durante le fatiche del conunissariato, diviso tra i fratelli il patrimonio comune, si comperava una casetta in via Mirasole e provvedeva a riattarla e a sistemare a suo modo l'attiguo orticello. Realizzava così finalmente il suo sogno di un'esistenza semplice, sottratta nei limiti del possibile all'urgenza dei compiti e dei fastidi d'ordine pratico, tutta dedita al culto degli intimi affetti e della poesia. Le cariche pubbliche (tra il '28 e il '30 è addetto al Magistrato dei Savi, per l'anuninistrazione della giustizia) non sono tali da distrarlo troppo dal suo impegno. La sua presenza in corte è richiesta solo per circostanze eccezionali e di alto prestigio: nel '29 segue il duca a Modena, per scortare l'imperatore che si reca nello Stato del papa; nell'ottobre del '31 è ambasciatore presso Alfonso d'Avalos, capitano dell'esercito spagnolo, che l'accoglie con grande onore e gli offre una ricca pensione; nel novembre del '32 accompagna ancora il duca a Mantova, dove è ospite dei Gonzaga e torna a incontrarsi con Carlo V. L'occasione dei divertimenti carnevaleschi, fra il '28 e il '31, o l'altra delle feste per le nozze di Ercole d'Este con Renata di Francia, lo riportano di tanto in tanto ai suoi giovanili amori con il teatro: rielabora vecchie commedie e ne inventa di nuove; attende amorosamente a curare la regia degli spettacoli; sopraintende alla costruzione nella gran sala del castello di una scena stabile, che andrà purtroppo distrutta in un incendio alla fine del '32: grate fatiche, che sottolineano il prestigio e impegnano la bravura del letterato, ma non distolgono, se non temporaneamente, il poeta dal compito a cui si rivolgono ormai tutte le sue migliori energie. Giunge appena in tempo a vedere l'ultima stampa dell'Orlando, ampliato e corretto. Pochi mesi dopo, il 6 luglio del 1533, si spegne silenziosamente, alla soglia dei cinquantanove anni: il suo modo di vita è ormai così appartato e umbratile che la notizia della sua fine raggiunge la corte solo alcuni giorni più tardi. I funerali si svolgono senza pompa, secondo la sua espressa volontà, nella chiesa dei frati di San Benedetto. Dal 1801 le ossa sono tumulate nella sala maggiore della Biblioteca comunale ferrarese.
Una vita così scevra di spunti avventurosi e romanzeschi, così povera di atteggiamenti eroici, può anche suggerire, e ha di fatto suggerito, l'immagine di un carattere pigro, senza forti interessi inteuettuali, morali e politici, di una vocazione edonistica a volta a volta disturbata e contraddetta dall'urgenza di fastidiosi problemi pratici e di obblighi familiari e cortigiani assunti e sbrigati contro voglia. Rapportata al metro dell'alta poesia del Furioso, una tale vita pare, altrettanto naturalmente, postularne un'altra, più intima e vera, assorta e contemplativa, tramata di sogni e fantasie, in cui la mente si rifugia a lenire, anzi a obliare le miserie e le meschinità dell'esistenza quotidiana. Si è giunti così a raffigurarsi l'indole dell'A. in una disposizione distaccata, indifferente o addirittura scettica, sempre aliena dall'iinpegnarsi interamente nei problemi della vita e della cultura del suo tempo; e per contro la sua poesia come una sorta d'evasione e di fuga dalla realtà, un gioco, un divertimento che si attua in una sfera Wusoria, in un totale abbandono a quell'ideale dell'arte, che solo sopravvive alla caduta di tutte le passioni e di tutte le fedi. Una siffatta interpretazione - che affiora di continuo nella storia della critica ariostesca, tocca il suo culmine nei romantici (e la sua formulazione più caratteristica nel De Sanctis) e sopravvive variamente sfumata e attenuata anche nell'esegesi più recente - contiene senza dubbio un nocciolo di verità: essa punta invero sul divario ineliminabile che intercede fra il mondo della poesia e quello delle cure e degli affetti pratici (divario non certo esclusivo dell'A., ma che in lui sembra assumere un rilievo più spiccato e quasi simbolico) e fra la poesia stessa del capolavoro e la letteratura più o meno felicemente esercitata negli scritti minori. Presa alla lettera tuttavia, questa definizione critica importa un'assurda contraddizione fra la biografia e l'opera letteraria, nonché fra i minori esercizi dello scrittore, tutti più o meno legati ai casi e alle necessità di un'esperienza esterna ed umile, e il poema che invece la distanzia e infinitamente la trascende. Per rendersi conto di questo assurdo in tutta la sua portata, basterà provarsi ad espungere mentabnente, in un'analisi del Furioso, il peso di quell'esperienza di uomini e di cose che l'A. attingeva nell'assidua e apparentemente dispersiva e banale vicenda dei suoi amori e delle sue amicizie, delle vaste relazioni inteuettuali, delle pratiche amministrative, dei maneggi diplomatici, e che poeticamente si traduceva in una conoscenza penetrante, acutissima, estremamente variegata e realistica dei caratteri e delle passioni, insomma dell'umana psicologia, e per un altro verso la presenza di quell'educazione tecnica e formale, di linguaggio e di stile, che il poema presuppone e le opere minori documentano nei singoli aspetti e nelle diverse fasi del suo svolgimento. Non è difficile accorgersi che, da una tale eliminazione, la sostanza umana del poema risulterebbe alla fine così rarefatta e depauperata, da rendere presso che impossibile la valutazione della grandezza di un'opera, che si presenta come esemplare e rappresentativa di un momento insigne della nostra civiltà e della nostra storia, laddove a quella stregua si ridurrebbe invece nei termini di un futile gioco dell'immaginazione, di un ambiguo ed ozioso svago di letterato. Proprio alla luce del Furioso è possibile, se mai, fondare le premesse di un giudizio più equo e più attendibile della vita e dell'indole del poeta e della sua minore attività letteraria nel campo della lirica, della satira e del teatro. Soltanto nel poema infatti la biografia trova il suo centro e il suo scopo, ostinatamente e coerentemente perseguito, al di là delle circostanze talora propizie e più spesso ostili, con animo tutt'altro che pigro, acquiescente ed evasivo, bensì pronto sempre a reagire e a sollevarsi sulla trama mediocre delle vicende quotidiane, da cui traggono alimento e in cui si maturano l'intelligenza e la moralità dell'A., quella sua concezione infinitamente saggia, tollerante, comprensiva e insieme disincantata delle cose e degli affetti. Ben lungi dal ridursi dunque, come pur fu detto, al "rovescio della sua poesia", la vita trova nella poesia il suo senso e il suo necessario coronamento; e, anche presa nei suoi elementi più esterni e mediocri, fornisce alla poesia a volta a volta la materia, lo stimolo e, più raramente, il punto d'attrito su cui si esercita una riflessione critica nient'affatto invadente, ma neppure mai disarmata. E' quanto alle opere minori, anch'esse non sono da valutare per sé' sì sempre allo specchio e in funzione dell'Orlando, di cui solo in piccola parte precedono e preannunziano, ma nella parte maggiore accompagnano e intervallano, a modo di pause distensive e di esperimenti e saggi nelle più diverse direzioni tematiche e stilistiche, la lunga e laboriosa composizione estesa all'incirca per un trentennio. Talché può dirsi che in esse sono da riconoscere, dispersi e isolati, tutti gli ingredienti affettivi e le componenti stilistiche che nel capolavoro ritornano fusi e usufruiti in una superiore armonia compositiva e poetica.
Opere. Carmina. - Nel gennaio del 1532, scrivendo al marchese di Mantova Federico Gonzaga per chiedergli di lasciar transitare attraverso il suo territorio con esenzione di dazio "quattrocento risme di carta" necessarie per la nuova edizione dell'Orlando, l'A. aggiungeva: "io fo pensier anco di stampare alcune altre mie cosette". Quali degli scritti minori avesse in animo di pubblicare non sappiamo, perché il progetto non ebbe alcun seguito, sicché tutto lo sparso materiale di autografi e apografi passato in possesso degli eredi o rimasto in mano di amici e conoscenti vide la luce soltanto postumo (tranne alcune edizioni non autorizzate e clandestine delle prime commedie, condotte su copioni apprestati per la recita e trafugati dagli attori). È comunque improbabile che il poeta pensasse a una raccolta ordinata delle poesie, sia in latino che in volgare, perché né le une né le altre, così come sono giunte a noi, si prestano in alcun modo a suggerire le linee di un canzoniere organicamente concepito, mentre forniscono piuttosto il quadro di un'attività estravagante e occasionale e si raccolgono in una tradizione tutt'altro che omogenea, non di rado aperta alle intrusioni di componimenti apocrifi o per lo meno dubbi.
Per i Carmina, i nuclei più saldi sono offerti da un manoscritto in buona parte autografo, oggi nella Comunale di Ferrara, e dall'edizione curata nel 1553 da G. B. Pigna sulla scorta di un originale perduto, che per molti testi rappresentava uno stadio di elaborazione più avanzata, ma sul quale l'editore umanista intervenne anche per conto suo con emendamenti e ritocchi. La sezione più compatta e più vasta della raccolta risale alla prima fase dell'attività del poeta, fra i venti e i trent'anni (solo pochi componinienti e quasi sempre brevi, epigrammi o epitaffi, appartengono a un'epoca più tarda) e rispecchia i diversi momenti di un'educazione soprattutto stilistica e tecnica, che pur lascia intravedere già' nella scelta stessa dei modelli e dei temi, il primo orientarsi delle preferenze, del gusto e dell'umanità dello scrittore.
Non meno dell'esperienza petrarchesca, che si svolgerà nelle rime, l'esercizio della poesia latina costituiva un passaggio obbligato nel tirocinio di un letterato cinquecentesco; e se la sua funzionalità, in rapporto al traguardo ideale dell'A. maggiore, risulta senza dubbio più indiretta e meno evidente, non è perciò meno essenziale. Si trattava anzitutto di acquisire e padroneggiare un patrimonio di favole, di situazioni affettive e di moduli formali, e di far reagire quella cultura poetica al paragone di una sensibilità personale. Il che importa la definizione di un ambito di temi e di autori congeniali, non troppo vasto, e tanto meno eclettico, ma ad ogni modo più esteso e curioso che per solito non si creda. L'Orazio delle Odi, Catullo e gli elegiaci sono senza dubbio i modelli più frequenti e prediletti, ma il tessuto delle immagini e dello stile rivela una base di letture più varie e non supefficiali: oltre Virgilio, anche Stazio, Plauto, Terenzio, i prosatori moralisti e, per alcuni epigrammi, l'influsso certo dei poeti greci dell'Antologia, conosciuti forse in traduzioni latine. Si trattava inoltre della faticata conquista di un decoro linguistico, di una misura di eleganza e di grazia, che soltanto poteva essere attinta dalla frequentazione paziente dei classici.
Una lettura che tenga conto della natura essenzialmente letteraria e riflessa dei Carmina, permetterà di scorgere la linea di un sicuro e costante progresso, dalle prime esercitazioni scolastiche, centoni di reminiscenze ancor grezze o facili variazioni in margine a uno spunto libresco, ai componimenti più tardi dove la cultura formale ormai assimilata sufficientemente e usufruita con maggior franchezza consente la nitida elaborazione di motivi sentimentali più genuini, nonché dell'arguzia nativa dello scrittore. È certo che nell'A. latino restò sempre un che di impacciato e di ruvido; non in lui cercheremo la disinvoltura e la consumata perizia umanistica, non dico di un Pontano e di un Sannazaro, ma neppure di un Cotta o di un Navagero o di un Bembo; e tuttavia è ben visibile nella serie dei testi il processo di un'arte che si viene via via maturando. Spesso anche la presenza di due redazioni successive di singole odi o epigrammi ci permette di seguire da vicino, e fin nelle minuzie, questo travaglio di perfezionamento formale: così per la giovanile ode a Filliroe (I e I bis), per l'epigramma sulla fanciulla che vende rose (XXXIII e XXXIV), per non pochi fra gli epitaffi (X e XI, XVI e XVI bis, LV e LV bis), dove si avverte ben chiaro l'intento di raggiungere una stesura sempre più squisita e concettosa, un più felice accordo di pensieri e parole. Talora, attraverso questa cura di pazienti ritocchi, si fa strada anche una nota più personale, il segno di un sorriso e di una malinconia che sono già in tutto ariosteschi (LVIII, XLIX, LXIII), o anche si tentano i modi discorsivi e sciolti della confessione autobiografica (VII, LIV), sulla linea che si svolgerà appieno nelle Satire e nei proemi di taluni canti dell'Orlando: spunti e presentimenti di una poesia minore, che fiorisce nelle pause e ai margini di una lenta e pacata sperimentazione stilistica, sul terreno di una vivace esperienza affettiva.
Rime. - Anchedelle rime volgari dell'A., come dei Carmina, non esiste un corpus ordinato dall'autore, che ci fornisca un criterio sicuro per vagliarne l'autenticità e la lezione. Le fonti più attendibili di cui possiamo disporre sono le raccolte contenute in due codici della Comunale di Ferrara e la stampa postuma curata da Iacopo Coppa modenese nel 1546, che rappresenta, come pare, una tradizione indipendente rispetto a quella conservata dai manoscritti, e in cui già si insinua qualche componimento apocrifo o per lo meno dubbio. Alcuni capitoli erano comparsi già prima, a pochi anni dalla morte dello scrittore, in edizioni clandestine di cerretani; e più tardi il Giolito aveva accolto alcuni sonetti e madrigali nelle sue antologie della lirica del ' 45 e del '47; altre rime infine, autentiche o variamente attribuite al poeta, furono rintracciate e divulgate da eruditi del Sette e dell'Ottocento.
È probabile che l'A. svolgesse nella prima gioventù, parallelamente e contemporaneamente, la sua duplice esperienza di lirico in latino e in volgare (l'epicedio in morte di Eleonora d'Aragona, moglie di Ercole d'Este, risale all'autunno del '93); in seguito, dal 1504 in poi, le "rime" dovettero prendere a poco a poco il sopravvento sui "metri", senza che mai tralasciasse del tutto la consuetudine delle une e degli altri fin oltre i cinquant'anni d'età. Vero è bensì quello che già ebbe a notare il Carducci, che "l'Ariosto nella sua gioventù scrisse, se non solamente in latino, certo più spesso e meglio in latino che non in italiano"; e quanto al "meglio", si può aggiungere che il giudizio resta nel complesso valido, per il poeta lirico, anche al di là dei limiti assegnati all'esperienza in stretto senso giovanile. Nelle rime invero il processo di assimilazione e di educazione si svolge tutto su un piano meramente formale, e non si estende, come avveniva per i modelli classici, a un repertorio di temi e di situazioni rivissute con immediata adesione sentimentale. Non si dice perciò che esso risulti meno importante ed essenziale al fine ultimo della conquista di un linguaggio altamente intonato, omogeneo, rivolto ad attuare quell'ideale di eleganza aurea e insieme spontanea, classica e vitale, che sarà dei Furioso. Per questo rispetto, lo studio attento e prolungato della lingua del Petrarca e l'industria dell'artiere volonteroso, che si adopera a sperimentarne e riprodurne singoli modi e strutture lessicali e sintattiche, hanno certo un significato che sarebbe impossibile sopravvalutare. Mentre, anche in una prospettiva di storia cultunde, il petrarchismo dell'A., a mezzo fra gli esemplari del tardo Quattrocento, e specialmente dei vicini Tebaldeo e Boiardo, e la riforma del Bembo, da cui è piuttosto sfiorato che domi nato, occupa un posto tutt'altro che trascurabile. Ma è altrettanto certo che l'A. non aderisce mai interamente alla sostanza poetica, tutta introspettiva, del Petrarca, e gli rimane pressoché estranea quella volontà di assoluta stilizzazione dei dati psicologici. La sua ricerca tende invece chiaramente a spostarsi sul piano di una psicologia più caratterizzata e definita in una tipologia più ricca e più varia, più cordiale ed espansiva, già pronta a risolversi in moduli di figurazione e di racconto. Tanto è vero che i momenti migliori delle rime sono quelli in cui il ricordo o la contemplazione si effondono in canto o si obbiettivano in descrizioni e narrazioni (son. XIII, XVII, XX, XXXV).
Se l'esperienza petrarchesca costituisce comunque un momento essenziale nel tirocinio stilistico dell'A., come di ogni letterato del Cinquecento, dei tutto marginale e sporadico riesce per ora l'influsso dell'opposta tradizione giocosa e realistica, che pur s'avverte nei due sonetti contro il fattore del duca, Alfonso Trotti (XXXIX, XL), e che lascierà qualche traccia anche nelle Satire, e persino nel Furioso (per es., nell'episodio di Gabrina).
Sempre nella direzione delle Satire, ma orientata più specificamente verso la ricerca di un tono colloquiale, che include l'espansione affettiva e la riflessione moralistica, risulta assai più notevole l'esperienza dei capitoli in terza rima, che anche quantitativamente tengono gran posto nel canzoniere dell'A. e ne costituiscono la sezione più fortemente segnata da un'impronta personale, nei temi come nel linguaggio. Proprio qui, dove l'influsso del Petrarca si attenua (quando non pure s'invilisce in meri espedienti di artificio strutturale, sulla scia dei petrarchisti quattrocenteschi, come nei capitoli XIX, XXIII, XXV e peggio nel XXVII), l'A. trova la sua misura più genuina e una varietà di spunti e di intonazioni in cui meglio si esprime la sua ricca, mobile e concreta umanità. Certe aperture di paesaggio di una freschezza luminosa e cordiale nell'XI e nel XII, o anche certi spunti di confessione e di moralità, nel V e nel VI, nel X e nel XV, appena accennati in un tono spoglio di eloquenza e di polemica, sono tra le cose più felici dell'A. minore. Nei ternari composti più tardi, anche la lingua, lo stile, perfino :il movimento metrico denunciano l'esperienza già in atto del poeta dello Orlando e delle Satire; e non è un caso se uno di essi, il XIII, poté passare quasi intatto, con le lievi correzioni imposte dal trasferimento delle terzine in ottave, nel XLIV canto dei poema.
Satire. - Nei Carmina e nelle rime l'attenzione e l'intenzione dello scrittore sono, almeno all'inizi o, prevalentemente formali; nelle Satire, e in parte nelle commedie, l'interesse sembra invece spostarsi tutto verso il contenuto e, segnatamente nelle priine, verso l'ùnmedi atezza autobiografica. Sarebbe per altro pericoloso insistere troppo su questo contrasto, che ha tutt'al più un valore di orientamento generico. Già nell'esperienza lirica, latina e volgare, è infatti evidente la tendenza a evadere dai limiti di una pura esercitazione tecnica e stilistica e ad accogliere in misura crescente gli spunti e i suggerimenti di una realtà psicologica e di una riflessione morale, sia pure mediate e tenute a freno da una chi ara, ma non troppo rigorosa esigenza di decoro unianistico. D'altra parte la tendenza a consider
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Florence, 1483 - 1540, Florence
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Ferrara, 1530 - 1575, Ferrara
Vigevano, 1452 - 1508, Loches, France
Mirandola, 1463 - 1494, Florence
Lamporecchio, about 1498 - 1535, Florence